martedì 18 agosto 2015

http://paolofranceschetti.blogspot.it/2009/02/intervista-gioacchino-genchi.html

venerdì 14 agosto 2015

#CHISTAMEGLIO: L'INVIDIA SOCIALE COME INSTRUMENTUM REGNI

08 AGOSTO, 2015 | ECONOMIA
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La classe media come la conosciamo oggi - e come i nostri figli, sic stantibus rebus, conosceranno solo sui libri di storia - è il prodotto diretto di una lotta alla diseguaglianza sociale di cui ha completamente perso la memoria. L'inconsapevolezza di questa genitura è dimostrata dall'entusiasmo con cui oggi si abbevera alle nuove (?) retoriche della competizione e della privatizzazione rinnegando ciò che l'ha strappata e la preserva dal fango da cui proviene: l'universalità dei diritti e delle opportunità (istruzione, lavoro, casa, salute) garantita dalle leggi e dalla spesa dello Stato.
La lotta alla diseguaglianza - cioè la possibilità di esistere di una classe media - può essere riformulata anche come principio relativo: chi sta peggioperché ammalato, povero, invalido, anziano, disoccupato, disabile, ma anche tossicodipendente, emarginato, deviato ecc. nuoce al benessere medio della comunità e quindi va aiutato nell'interesse di tutti. Sulla linea di questo principio implicito se non ignorato dai più (a partire da chi ne ha avuto beneficio) si è mossa l'Italia del dopoguerra e dell'industrializzazione passando dalla filantropia e dal mutualismo al welfare, all'universalità dei servizi pubblici e alle tutele del lavoro e dei salari. Che in una società dove "nessuno resta indietro" le cose vadano molto meglio per tutti (con l'eccezione, eventuale e di breve termine, del proverbiale 1%) è confermato dalla storia recente e dalla scienza economica. Il Nobel 2001 Joseph Stiglitz si è dedicato allo studio delle cause e delle conseguenze della diseguaglianza economica e ha osservato che la diseguaglianza:
  • è il risultato di scelte politiche, non di contingenze "economiche" né tantomeno naturali,
  • non promuove il "merito" aumentando il premio per chi si impegna e il castigo per chi non si impegna, ma immobilizza la società in blocchi sempre più distanti e incomunicanti,
  • indebolisce l'economia perché riduce i consumi,
  • frena lo sviluppo perché esclude i bisognosi dalla formazione e i disperati dal lavoro, mentre chi sta in cima alla scala sociale investe le proprie competenze nella ricerca di rendite (rent seeking) e non nella produzione di ricchezza,
  • produce instabilità sociale e favorisce il crimine,
  • mina la democrazia concentrando il potere politico nelle mani dei più ricchi, i quali producono regole favorevoli ai più ricchi aggravando il divario.
Nella Brianza degli anni '90, quella in cui il Pedante ha trascorso la sua lunga adolescenza, erano numerosi i piccoli imprenditori e liberi professionisti di successo con villetta mansardata sui colli, pied-à-terre ai laghi e figli a spasso nelle università straniere. Di costoro, anche se in qualche caso più spregiudicati del lecito, si usava dire "beati loro!". Nella percezione di allora - la stessa dell'exploit berlusconiano - il diffuso successo imprenditoriale era l'indice e la garanzia di un benessere alla portata di tutti. Di chi sceglieva la via più sicura di un dignitoso impiego in aziende, banche o enti pubblici si diceva invece bonariamente che si era "sistemato bene". Ciò che turbava i sonni dell'industre lombardo erano piuttosto coloro che languivano ai margini di quel sistema di sicurezza e benessere: non certo per calcolo macroeconomico, ma perché in effetti il disagio altrui rappresentava un pericolo per l'ordinata prosperità della maggioranza. Ai motivi etici, religiosi, criminali, igienici e finanche estetici si univa la minaccia che il fallimento di qualcuno potesse mettere in crisi l'universalità e la replicabilità del modello di successo prevalente. Da cui l'impegno di giovani e vecchi nel volontariato ma anche, allora come oggi, le interpretazioni meritocraticheper esorcizzare il contagio.
Da allora sembrano passati mille anni. La crisi economica invocata e provocata dai grandi operatori finanziari ha fatto del disagio e dell'insicurezza la regola, non l'eccezione. E, con un ribaltamento di paradigma radicale ma conformista tanto quanto il precedente, il problema non è più chi sta peggio, ma chi sta (ancora un po') meglio. Se passa - come è passata - l'idea di uno Stato la cui prima funzione sia quella di garantire utili a un ristretto gruppo di creditori, qualsiasi spesa pubblica che non sia la corresponsione di capitale e interessi è tecnicamente improduttiva e mette a rischio un equilibrio contabile incredibilmente assurto a principio costituzionale. Se i cittadini di quello Stato credono - come credono - che ciò che lo Stato spende per migliorare la condizione di chi ci abita non assolva al senso stesso di un'organizzazione statale ma costituisca un passo verso il suo "fallimento" (?), allora la rinuncia a quel beneficio diventa un dovere civico a cui tutti sono chiamati. Se poi i lavoratori si persuadono - come sono persuasi - che l'unica via allo sviluppo sia la competizione al ribasso sui mercati aperti, la rinuncia a salari e diritti assume il volto nobile del sacrificio per il bene economico della patria.
Il peggioramento delle condizioni di un'intera classe sociale smette di essere un pericolo (quale è) e un veicolo (quale è) di divaricamento della diseguaglianza e si trasfigura in condizione necessaria e terapeutica a cui nessuno si deve sottrarre, neanche potendo: pensionati, dipendenti pubblici e privati a tempo indeterminato, beneficiari di prestazioni superflue (?), assistiti, agevolati. L'imperativo morale crea nessi tecnici inesistenti e malfondati, come l'ossessione del parassitismo: chi sta meglio perché gode di tutele negate ad altri non solo è un privilegiato, ma lo è a spese di chi sta peggio. Perché? Perché deve essere così. La caccia alle streghe produce follie logico-aritmetiche: se stessimo tutti peggio, staremmo tutti meglio.
La signora del Pedante è impiegata in un importante istituto di credito cooperativo e può godere di - anacronistici, ça va sans dire - benefici tra cui l'accesso a una cassa di assistenza mutualistica che rimborsa ai dipendenti parte delle spese sanitarie. Parenti e conoscenti, invece di rallegrarsi o di auspicare iniziative simili per sé, commentano indignati che "nel 2015 simili privilegi sono uno schiaffo per chi non può neanche permettersi un'otturazione!". Al che ci si tace. Inutile sarebbe far loro osservare che quella cassa è finanziata dall'autotassazione dei dipendenti senza pesare sull'erario. Inutile argomentare che il problema è semmai che nel 2015 c'è chi ancora non può curarsi i denti. No: chi sta meglio perpetua un sistema di privilegi diventato (quando? perché?) insostenibile che in qualche modo deve pesare sulle spalle di chi sta peggio. Dalla mutua sanitaria al credit crunchil passo pindarico è breve.
La razionalità non ha patria nell'invidia sociale e nelle narrazioni moralistiche destinate alle masse. Ugualmente inutile sarebbe evidenziare, se non le conclusioni di Stiglitz, almeno qualche dettaglio che è sotto gli occhi di tutti:
  • se la politica di riduzione delle tutele e del benessere della classe media non ha frenato la recessione, ciò significa che: a) sicuramente non funziona; b) probabilmente ne è una delle cause;
  • se i prezzi reali di beni e servizi nazionali restano invariati o aumentano, ciò dimostra matematicamente che il sacrificio della classe media è annullato dall'arricchimento di qualcun altro: ad esempio i rentier di Stato che lucrano sull'aumento della spirale debito-pressione fiscale;
  • coloro che predicano le virtù del rischio sono benestanti ipergarantiti dallo Stato: dal prof. Monti (32 mila euro mensili pubblici a vita) ai sontuosissimi trattamenti retributivi e pensionistici dei funzionari della Troika (UE, BCE, FMI). Sarebbe però inutilmente idiota traslare l'indignazione sul piano dei "privilegi della casta" - perché, ancora una volta, il problema è chi sta peggio, non chi sta meglio. Il caso deve invece far riflettere sui veri obiettivi di un austerità selettivamente predicata solo ai più deboli;
  • ancor di più, i mandanti di questi predicatori incoerenti - la classe finanziaria che tutto vende e nulla produce - coltivano la propria sopravvivenza e prosperità rigorosamente sotto la garanzia dello Stato e al riparo dal mercato, per i motivi e nei modi spiegati ne Il socialismo dei ricchi.
Lo spettacolo di una classe media che presume di avanzare socialmente in una competizione tra singoli finalmente libera dai ceppi delle politiche di equalizzazione sociale - cioè le stesse che la mantengono in vita - è tra i capitoli più penosi dell'attuale fase di involuzione economica. Per capire la tragicomica velleità di questa presunzione basterebbe solo osservare, se non i fatti, la facilità con cui una sparuta classe finanziaria tiene con la testa nel fango questa massa di aspiranti conquistadores del libero mercato con trucchi di bassa ragioneria (debito & co.), slogan da teledipendenti (Europa & co.) e parabole colpevolizzanti (corruzione & co.).
Organizzare una lotta di classe dove tutte le squadre tirano nella stessa porta - quella del più debole - è certamente un capolavoro di ingegneria sociale. Tanto più se i perdenti sono fieri di perdere. La chiave è l'invidia sociale, che fa credere ai polli di farsi galli a patto che gli altri polli perdano i propri diritti. Con il risultato classico di ogni guerra tra poveri: di risparmiare ai padroni la fatica di portarli al macello.
Commenti
Emilio Varelli
13 AGOSTO, 2015
L'invidioso è peggio del geloso. Quest'ultimo almeno si pone l'obiettivo di migliorarsi rispetto all'avversario. L'invidioso invece vuole solo distruggere.

Nuovo commento


sabato 25 luglio 2015


Scoprendo Taiwan con Teresa, l’autrice del blog “Asia Mon Amour”




Vivere a Taipei
Oggi parliamo con Teresa Pisanò che, oltre ad aver vissuto cinque anni a Shanghai e due anni a Taipei – dove risiede tuttora, – è anche l’autrice di Asia Mon Amour, un blog che parla di… ma di cosa volete che parli un blog con un titolo del genere?
Teresa, mi hai detto che hai studiato “Lingue e Civiltà Orientali” a Venezia che, da quello che ho capito, è la facoltà italiana più prestigiosa, tra quelle che si occupano di lingue orientali. Lo so perché ricevo millanta richieste da parte di giovani sinologi che aspirano a trasferirsi in Cina senza sapere troppo come fare. In che anno sei arrivata in Cina, come ci sei arrivata e, sopratutto, come hai fatto a trovare un lavoro e restarci cinque anni?
La prima volta in Cina è stata nel 2001. Andai a studiare all’Università di Lingue e Culture di Pechino e in quel periodo feci un viaggio a Shanghai di qualche giorno. Mi piacque moltissimo e decisi di tornarci nel 2004 insieme a mio marito, allora fidanzato. Ci andammo un po’ all’avventura, prenotando solo un albergo per tre giorni e senza avere un’idea di cosa avremmo fatto, né quanto saremmo rimasti. Ma in quei pochi giorni accadde tutto: trovammo degli amici, una casa e il lavoro.
A Shanghai tutto si muove in fretta, è una città molto dinamica e, soprattutto allora, offriva molte opportunità. Dopo qualche mese, tornammo in Italia perché io dovevo terminare i miei studi, ma subito dopo la laurea tornammo definitivamente sino al 2009. A Shanghai ho lavorato prima in uno studio di architettura e poi ho sempre insegnato in varie scuole. Il tempo è passato così velocemente!
TeresaPensi che nel 2004 fosse più facile trovare lavoro nella Terra di Mezzo?
Credo che allora ci fossero più possibilità rispetto ad ora: ormai molti studiano il cinese cercando fortuna in Cina, pertanto c’è più concorrenza. In ogni caso credo che se si conosce la lingua e la cultura, le opportunità siano ancora maggiori rispetto all’Italia o all’Europa stessa.
Mi hai detto che prima di trasferirti a Shanghai hai trascorso un breve periodo a Pechino. Domanda da un milione di Yuan, almeno per chi conosce la Cina: preferisci vivere a Pechino o Shanghai? Perché?
A Shanghai sono stata molto bene. Il lavoro mi piaceva molto e ho avuto la fortuna di conoscere delle persone straordinarie, con cui tuttora sono in contatto, che mi hanno trattato davvero come una di famiglia e su cui ho potuto contare in ogni situazione. Perciò Shanghai è per me una seconda casa.
Pechino l’ho vissuta da studentessa e da turista. Ho fatto la tesi di laurea sull’arredamento di interni delle case tradizionali di Pechino, le cosiddette siheyuan, perciò mi ci sono recata varie volte per le mie ricerche. Sono molto affascinata dalla Pechino storica e da quello che resta dei suoi magici vicoli o hutong. Non saprei dire quale preferisco delle due, perché sono totalmente diverse.
A Shanghai si vive per strada, è più frenetica, più meridionale come approccio alla vita, mentre Pechino la trovo più silenziosa, più discreta, più segreta. E ciò dipende anche dall’architettura delle abitazioni, che ne ha condizionato anche il modo di vivere degli abitanti. A Pechino le siheyuan o case quadrilatere con il cortile interno, dove tutto si svolgeva dentro, appunto. A Shanghai le shikumen, case di mattoncini di due, tre piani direttamente sulla strada. Ma per spiegare tutto questo ci vorrebbe un’intervista a parte!
vivere a Taiwan
Dopo cinque anni in Cina hai fatto una sosta in Italia ma, presa da mal d’Asia (come ti capisco) sei tornata velocemente in Oriente, questa volta a Taiwan. Quali sono le ragioni di questa scelta? Perché non di nuovo la Cina?
La scelta di andare a Taiwan non è stata spontanea, ma ho semplicemente seguito mio marito, che per il suo lavoro (è designer dell’ASUS, la famosa azienda di computer con sede centrale a Taipei) doveva trasferirsi a Taipei, perciò il fatto di essere andati in un posto dove si parlasse il cinese è stato del tutto casuale.
A Taiwan utilizzano ancora i caratteri tradizionali mentre in Cina il comunismo, a parte aver distrutto una buona parte di eredità culturale, ha fatto fuori anche i vecchi caratteri, per adottare un metodo di scrittura apparentemente più semplice (anche se io ho i miei dubbi). Qual è la tua opinione su questa scelta? Una volta arrivata a Taiwan, è stato difficile adattarsi al nuovo sistema di caratteri?
Avendo studiato il mandarino con i caratteri semplificati, faccio fatica a leggere quelli tradizionali e devo dire che non ho voluto studiarli, visto che per lavoro servono ben poco. Sicuramente sono molto affascinanti, ma è già abbastanza complicato con i caratteri semplificati! Per fortuna i taiwanesi parlano cinese con un accento molto chiaro e pulito, quindi non ho problemi, inoltre le insegne e le varie scritte, spesso hanno la traduzione in inglese. In casi estremi, qualche amico me li legge così riesco a capire.
Teresa a Taiwan
Anche se non sono mai stato a Taiwan conosco diverse taiwanesi – solo donne, chissà perché, – e ho sentito spesso parlare delle tante differenze tra l’isola e la Terra di Mezzo. Non ti chiedo di elencarmi tutte le differenze tra queste due realtà, quanto piuttosto di descrivermi le tre differenze che ti hanno colpito di più. Quelle che, dopo cinque anni di Cina, non ti saresti aspettata.
Trovo i taiwanesi molto diversi dai cinesi, nel modo di porsi, di essere e di vivere. Li trovo molto più simili ai giapponesi. Taiwan è stata sotto il dominio giapponese per ottant’anni, pertanto l’influenza nipponica è forte non solo nella cultura, ma anche nell’architettura e nel cibo.
Lavorano tantissimo, sono silenziosi e sono estremamente gentili.
A volte mi chiedo se lo facciano davvero con il cuore o se siano impostati come robot! Pensa che una volta ho lasciato per diverso tempo le mie piante ad un’amica di Taipei, perché dovevo andare in Italia e non volevo che morissero assetate e quando sono tornata e sono andata a riprenderle lei mi ha detto proprio così: “Ti ringrazio per avermi dato la possibilità di prendermi cura delle tue piante”, con inchino annesso e occhi bassi.
I cinesi me le avrebbero restituite con un sorriso, una pacca sulla spalla e magari una in meno. Credo che i cinesi siano più “suibian“, per usare un’espressione della loro lingua, più alla mano, più informali. Napoletani d’oriente, dico io.
Al momento abiti a Taipei, la capitale di Taiwan. Di cosa ti occupi? Come sei riuscita a trovare lavoro a Taiwan?
Insegno cinese e italiano, faccio traduzioni e nel tempo libero scrivo. Lavoro molto da casa, anche via Skype. Per un italiano che abbia studiato cinese non è semplice trovare lavoro a Taiwan, dove i mestieri che vanno per la maggiore sono ingegneri, informatici, designer e insegnanti di inglese.
Vivere a Taipei
Il tuo piatti cinese preferito?
Domanda difficile: sono moltissimi i miei piatti cinesi preferiti e quasi tutti quelli della cucina dello Hunan, regione della Cina famosa per i suoi cibi piccantissimi. Se dovessi sceglierne solo uno, direi il toufu con verdure piccanti.
E quello taiwanese?
Non vado pazza per la cucina taiwanese, anche se tra i cinesi c’è la leggenda che sia una delle cucine più buone. Secondo me, è molto meglio la loro! Mi piacciono i niurou mian, o spaghetti con carne di manzo, mentre una bevanda buonissima è il bubble tea, un caratteristico tè con l’aggiunta di latte e di buonissime palline nere di tapioca.
Descrivimi Taipei. Te lo chiedo con una punta di gelosia visto che, nonostante lo desideri da anni, non ci sono ancora arrivato. Un po’ perché non ho il dono dell’ubiquità, e un po’ perché vorrei passarci almeno una stagione.
Taipei è brutta. Questa è la prima cosa che noti quando arrivi. Brutta esteticamente, perché la sua architettura non ha niente a che vedere con quella delle città avveniristiche cinesi, né con quelle antiche e storiche. Non c’è né il moderno, né l’ antico. E’ una città sciatta, trasandata. In compenso la natura è strepitosa e in pochi chilometri hai il mare, le spiagge, la montagna, i fiumi e i laghi. In ogni caso, nella sua accozzaglia di edifici, trovi degli angoli molto belli e dei negozietti e caffè davvero originali. E’ un posto da scoprire, che si svela piano piano e dove forse non bisogna fermarsi alle apparenze.
Progetti per il futuro?
“Futuro” è una parola non contemplata nel mio vocabolario. Sono nomade e vivo alla giornata, cercando di vivere al massimo ogni cosa. Non so cosa mi aspetta, cosa sarà, quale la prossima meta. Il mio sogno sarebbe vedere il mondo intero o almeno tutta l’Asia e non sono sicura che mi basti una sola vita.
Teresa, grazie per averci fatto conoscere un po’ meglio questa terra, Taiwan, per me – e penso anche per tanti lettori, – ancora misteriosa. Chiunque voglia mettersi in contatto con Teresa può visitare il suo blog, Asia Mon Amour, o la sua pagina Facebook.

domenica 19 luglio 2015

LA BRUTALITA’ DELL’UNIONE MONETARIA HA DISTRUTTO LA FIDUCIA NELLA SINISTRA EUROPEA
Postato il Venerdì, 17 luglio @ 23:10:00 BST di davide
 
 
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DI AMBROSE EVANS PRITCHARD
telegraph.co.uk
La Grecia ha rotto l’incantesimo: la sinistra è diventata il gendarme delle politiche reazionarie e della disoccupazione di massa generate dall'euro. Un Partito Socialista dopo l'altro si è immolato sull'altare dell'Unione Monetaria per difendere un progetto che favorisce solo le élites economiche. E’ davvero di così cattivo gusto ricordare che le “Potenze Alleate” hanno spazzato via la metà delle passività esterne della Germania, nel 1953? Se l'Europa è nient’altro che la versione cattiva del FMI, che cosa resta del progetto d’integrazione europea? I tedeschi, peraltro, volevano solo la "sottomissione rituale” della Grecia.


L’establishment dell’Unione Europea dovrà affrontare, d'ora in poi, quello che ha sempre temuto: una guerra politica combattuta contemporaneamente su due fronti. Ha combattuto a lungo un insieme crescente di “sostenitori del libero-mercato”, di “parlamentari sovranisti" e di “populisti anti-immigrati” di estrema destra.
Ma ora ha anche perso la residuale presa emotiva che aveva a sinistra, dopo il trattamento da “terra bruciata” che ha riservato alla Grecia nel corso degli ultimi cinque mesi – concluso con la decisione (vendicativa) d’imporre condizioni ancor più severe ad un paese disperato, a pochi giorni dal referendum vinto a valanga.
Questo “trattamento” è durato per troppo tempo. Noi conservatori abbiamo guardato increduli a come un Partito Socialista dopo l'altro si sia immolato sull'altare dell'Unione Monetaria, per difendere un progetto che favorisce quelle élites economiche che la sinistra storica chiamava “un branco di banchieri" [Bankers’ Ramp: http://www.the-philosopher.co.uk/bankers-ramp.htm].
Abbiamo già visto i nostri amici della sinistra scusarsi per le politiche del 1930. Ma li abbiamo “presi” ancora una volta a difendere un regime pro-ciclico di tagli di bilancio, imposto all’Eurozona da un manipolo di reazionari "ordoliberisti", come ad esempio il Ministro delle Finanze tedesco.
Per quanto questi signori possano essere consapevoli di quello che stanno facendo (un qualcosa su cui la maggior parte degli economisti Nobel non sarebbe d’accordo), essi non hanno certamente vinto la sfida della leadership pan-europea. Philippe Legrain, un economista già redattore di “Foreign Policy”, ha detto che la Germania sta dimostrando di essere nient’altro che una "guida disastrosa" per l’Europa.
Per uno strano scherzo del destino, la sinistra ha lasciato che essa stessa diventasse il gendarme di una struttura economica che ha portato a livelli di disoccupazione una volta impensabili per un Governo social-democratico, dotato di una propria moneta e di tutti gli strumenti sovrani.
Ha trovato il modo per giustificare un tasso di disoccupazione giovanile che, nonostante l’emigrazione di massa, è ancora al 42% in Italia, al 49% in Spagna e al 50% in Grecia, ed ha accettato la “Lunga Depressione” degli ultimi sei anni, più profonda di quella del 1929-1935.
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Ha infine docilmente approvato il “Fiscal Compact” dell'UE, sapendo che esso obbliga i paesi dell’Eurozona a ridurre drasticamente il loro debito pubblico, ogni anno, del 1.5% del Pil in Francia, del 2.0% in Spagna e del 3.5% in Italia ed in Portogallo, per i prossimi due decenni. Una formula per la depressione permanente, che vieta qualsiasi politica economica di tipo keynesiano, ma anche i principi dell'economia classica. Si tratta, in effetti, di un piano degno del biblico “giorno del giudizio”.
Questo è ciò che la sinistra prima ha concordato e poi difeso, seppur a malincuore, perché non ha osato mettere in discussione, almeno fino ad ora, la sacralità dell’Unione Monetaria.
E così, quello che una volta era il potente “Partito Laburista Olandese”, è ormai ridotto ad una specie di pietosa reliquia del passato. Anche il Pasok è stato letteralmente cancellato, in Grecia, mentre il “Partito Socialista Spagnolo” ha perso la sua ala sinistra in favore del movimento ribelle Podemos, da poco vittorioso a Barcellona. Il leader socialista francese Francois Hollande, infine, raggiunge a stento, nei sondaggi, il 24%, dopo che la classe operaia francese si è spostata in direzione del “Front National”.
Ma gli eventi in Grecia hanno finalmente rotto l'incantesimo. "I progressisti dovrebbero essere sconvolti dalla rovina della Grecia per mano dell'Unione Europea. E' giunto il momento di appoggiare la causa degli euroscettici", ha scritto Owen Jones, in un notevole pezzo su “The Guardian”. Un nuovo termine, "Lexit", sta decisamente guadagnando spazio [let’s exit, usciamo].
Gli esponenti della sinistra sono a disagio. Il loro istinto è quello di contrastare tutto ciò che l'UKIP [Partito britannico fortemente euroscettico] rappresenta. "In un primo momento solo in pochi hanno immerso le dita dei piedi nell’acqua. Poi altri, in modo esitante, hanno seguito l’esempio, guardandosi per tutto il tempo l’un l'altro per rassicurarsi vicendevolmente", egli ha aggiunto.
La crudeltà mostrata sia da Bruxelles che da Berlino ha surclassato tutto il resto. Il Sig. Jones ha poi passato in rassegna le dichiarazioni di alcuni giornalisti:
"Il ‘tutto va bene’ (con l'UE) è in ritirata, mentre il ‘tutto va male’ avanza come una furia", ha dichiarato George Monbiot. Suzanne Moore, invece, si è chiesta: "Come può la sinistra aver dato il proprio supporto a tutto quello che è stato fatto?". Nick Cohen, da parte sua, ha aggiunto: “L'Unione europea viene dipinta, non senza fondamento, come un’Istituzione crudele, fanatica e stupida".
Dibattiti di questo tenore stanno prendendo piede in tutta Europa. Luigi Zingales, Consigliere del Premier italiano Matteo Renzi, è diventato un irriducibile euroscettico. Il giorno in cui la Grecia ha capitolato egli ha scritto: "Questo progetto europeo è morto per sempre. Se l'Europa è nient’altro che la versione cattiva del FMI, che cosa resta del progetto d’integrazione europea?".
Vogliano o meno, i paesi creditori dell’Unione Monetaria, far cadere un governo greco regolarmente eletto … possa essere o meno un "colpo di stato", non vi è comunque alcun dubbio che Syriza sia stata semplicemente costretta ad abbandonare le sue promesse elettorali, per mezzo della coercizione finanziaria. Dovrà anche abrogare tutte le leggi "fiscali" che sono state emesse a partire da Gennaio [quando è andata al Governo].
Senza dover tornare alle polemiche degli ultimi quindici anni sulla Grecia – un argomento diventato ormai familiare – lasciatemi dire che la crisi di quel paese deve essere considerata come una responsabilità collettiva dei creditori, delle élites dell’Unione Monetaria, dell'oligarchia greca ed infine di un immaturo Alexis Tsipras.
Il bail-out [salvataggio esterno] fatto dalla Troika nel 2010 aveva lo scopo di salvare l'euro e le banche europee (visto che non c'erano difese contro il contagio), non quello di salvare la Grecia che, al contrario, è stata deliberatamente sacrificata. Le radici della "Primavera Greca" possono essere ricondotte a questo peccato originale, poi ulteriormente alimentato dagli eccessi della Troika.
I paesi creditori dell’Unione Monetaria non hanno mai riconosciuto la propria colpevolezza. Non hanno mai tentato di negoziare onestamente con Syriza, anche su questioni poste su un terreno comune. Hanno chiesto, essenzialmente, che i termini del memorandum [bail-out del 2010] fossero applicati alla lettera, indipendentemente dal fatto che avessero o meno un senso economico, nascondendosi dietro a farisaici discorsi sulle regole.
Yanis Varoufakis, l'ex Ministro delle Finanze, ha detto ripetutamente che [i creditori] volevano una vera e propria "sottomissione rituale", ed è così che gli eventi sono decisamente sembrati ad un gran numero di persone in tutt’Europa.
[I paesi creditori] hanno forzato la situazione attraverso l'infame trattativa che ha avuto luogo nella notte di Domenica, senza peraltro offrire alcuna chiara riduzione del debito, anche se già sapevano che il FMI riteneva che la Grecia avesse bisogno sia di una moratoria di 30 anni sulle scadenze del debito che di sussidi fiscali, probabilmente a titolo definitivo. A niente di tutto questo è stata data una soluzione.
"La Grecia, nonostante avesse già pagato un prezzo enorme per errori fatti da altri, è stata trattata in un modo incredibilmente duro", ha detto Simon Tilford del “Centre for European Reform”.
E ha continuato: “Quello che trovo preoccupante è che sono così pochi i politici tedeschi che sembrano turbati dallo spettacolo di una Grecia umiliata fino a questo punto. I tedeschi hanno sviluppato un racconto di fantasia riguardo la crisi. Hanno trasformato il paesaggio intorno a loro e pensano che siano essi ad essere le vittime".
Il Sig. Tilford ha anche detto che la sinistra in Italia, Spagna e Francia, è da anni aggrappata all'illusione che la Germania avrebbe infine accettato di alleviare l’austerità e di cambiare l’Unione Monetaria: "Questo pensiero è stato totalmente screditato dagli eventi dello scorso fine settimana. Tutti possono vedere, in effetti, a quali brutali livelli si trovi la disoccupazione. Se le regole dell’Eurozona non possono essere rispettate, prima si va in quarantena e poi si viene buttati fuori".
Non dimentichiamo che la Banca Centrale Europea ha portato la Grecia fin quasi al crollo finale, conseguenza del congelamento della liquidità d’emergenza [ELA] per le banche greche, costringendo Syriza a chiudere le porte ai creditori, ad imporre controlli sui capitali ed infine a fermare le importazioni.
Tutto questo viola i principi dell’”Unione Bancaria Europea”, che dovrebbero separare i destini delle banche private dai travagli degli Stati Sovrani. E' stata una decisione politica, probabilmente illegale, condita da una forte aggressività tecnica. E' in ogni caso molto difficile da conciliare con il dovere della BCE, che è quello di sostenere la stabilità finanziaria.
Sappiamo tutti cosa c’era in gioco, nella realtà. La Germania ed i suoi alleati erano determinati a fare di Syriza un esempio, per scoraggiare gli elettori di qualsiasi altro paese a voler invertire il sistema.
Dubito che questo gioco possa funzionare, anche nei suoi termini più stretti. Podemos, ad esempio, resta su posizioni provocatorie. Ha accusato le Istituzioni dell'UE e il Governo spagnolo di aver commesso un "atto di terrorismo", in violazione del “Código Penal” spagnolo.
Si tratta, in ogni caso, di una strategia a doppio taglio. Costas Lapavitsas, un Deputato di Syriza, ha detto che il messaggio saliente degli ultimi cinque mesi è che nessun governo radicale può perseguire delle politiche sovrane, fintanto che è in balia di una Banca Centrale in grado di tagliare in qualsiasi momento la liquidità. "Adesso è perfettamente chiaro che l'unica via d'uscita è quella di liberarsi dell’Unione Monetaria", egli ha dichiarato.
Kevin O'Rourke, economista dell’”All Souls College” di Oxford, ha sostenuto che il prossimo Partito di sinistra che andrà a sfidare l'Unione Monetaria non sarà irresponsabile come Syriza, e non contratterà più da una posizione di tale abietta debolezza.
Egli ha detto che: "La lezione che può essere tratta da questa debacle è che negoziare con la Germania è una perdita di tempo. Ma, se si vuol farlo, si deve essere disposti ad agire con decisione ed unilateralmente; si deve disporre di un piano per il raggiungimento di un avanzo primario (se non è già stato raggiunto); si devono avere in tasca le opzioni sia per un duro default unilaterale che per la fuoriuscita dall’euro, ed essere disposti ad usarle al primo segno di fastidio da parte della BCE”.
Per quanto riguarda il comportamento tenuto dalla Germania la scorsa settimana, che cosa si può dire, parlando con educazione? E’ davvero di così cattivo gusto ricordare che le “Potenze Alleate” decisero di spazzar via la metà delle passività esterne della Germania, nell’ambito dell'accordo sul debito raggiunto a Londra nel Febbraio del 1953?
Questo atto di saggezza politica è arrivato a meno di otto anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dell'occupazione nazista della Grecia, quando l’immagine degli orrori erano ancora fresche nella mente di tutti. E' un periodo grosso modo equivalente al lasso di tempo che intercorre dalla crisi della Lehman.
La riduzione del debito ha avuto un certo costo per la Gran Bretagna, che era il più grande creditore nel periodo precedente la guerra. La riduzione fu convenuta nel rispetto dell'interesse collettivo e della scienza economica, e fu volutamente inquadrato nell’ambito di una "trattativa tra eguali", per sgomberare la nebbia costituita dai giudizi morali. Il risultato fu il Wirtschaftswunder [miracolo economico] tedesco e gli anni di gloria della ricostruzione post-guerra.
Qualunque cosa si possa pensare del comportamento della Grecia – che non ha fatto del male a nessuno – non possiamo usare giusto un minimo di buon senso?

Ambrose Evans-Pritcard
Fonte: www.telegraph.co.uk
Link: http://www.telegraph.co.uk/finance/comment/ambroseevans_pritchard/11742624/EMU-brutality-in-Greece-has-destroyed-the-trust-of-Europes-Left.html
17.07-2015

Scelto e Tradotto per www.comedonchiscitte.org da FRANCO

Fra parentesi tonda ( … ) le note dell’Autore
Fra parentesi quadra [ … ] le note del Traduttore


sabato 18 luglio 2015

Un'intervista a Demostenes Floros

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da Sabato Sera

Demostenes-1Medicina. Giovanissimo studente di Economia politica ha collaborato con Nerio Nesi, il «banchiere rosso» per qualche mese ministro dei Lavori pubblici del Governo Amato II. Poi ha fatto una tesi di laurea su «Il tasso di cambio tra il dollaro e l’euro» ed è stato reclutato dagli istituti di ricerca Ires e Nomisma, dove è diventato responsabile geopolitico di Nomisma Energia. Suo compito valutare come i fattori politici incidono sui prezzi delle materie prime, ovvero perché aumentano gas e petrolio. Domandone che fa girare il mondo. Da un annetto collabora con la prestigiosa rivista di studi geopolitici limes. Gli argomenti di cui si occupa più o meno sono gli stessi, con l’aggiunta della situazione greca, divenuta perno centrale dell’agenda politica europea e non solo. Quello studente, oggi trentaseienne, è il medicinese Demostenes Floros, uno dei due figli di Nicola, il medico scomparso tredici anni fa, ricordato sia per la sua professionalità, sia per l’impegno politico (era nella lista dei ricercati durante la dittatura dei colonnelli). Con Floros abbiamo cercato di capire cosa sta succedendo nel Paese ellenico e quali sono gli scenari economici e politici che ci aspettano.

Quando sei stato in Grecia per l’ultima volta, come vivono le persone oggi?

«Un dato si commenta da solo: ci sono 400 mila bambini denutriti. Tantissime industrie hanno chiuso, gli operai nelle città fanno la fame mentre ai dipendenti pubblici hanno tagliato del 30 per cento gli stipendi, le tredicesime, le quattordicesime e ne hanno licenziati decine di migliaia. Si assiste ad una fuga dalle città, come Atene e Salonicco, e al ritorno nelle campagne da dove sono partiti i nonni, dove qualcuno ha ancora della terra, un po’ di olivi».

Quali sono le cause della crisi greca?

«La Grecia ha appena 11 milioni di abitanti, è piccola, ma fa parte di un’area euro che sta vivendo una situazione generale di insostenibilità politica ed economica. Poi ci sono le peculiarità come la deindustralizzazione e una classe dirigente inetta ed incapace. Pochi si sono arricchiti mentre la maggioranza della popolazione diventava sempre più povera: oggi il debito pubblico è di oltre 300 miliardi di euro ma si stima vi siano 600 miliardi di euro depositati all’estero dai greci, ed è un dato in continuo aumento. La prima analisi che ho fatto per limes, pubblicata a dicembre 2011, verteva proprio sui possibili scenari della crisi greca: rimanere nell’euro oppure uscirne immediatamente o con una transizione in cui la Grecia e magari altri Stati adottavano un “euro bis” prima di tornare alle monete nazionali. Quello studio è ancora attuale».

E se scegliessero di copiare l’Argentina di dieci anni fa?

«Gli argentini fecero una furbata, anche i greci potrebbero. A mercati chiusi dovrebbero dichiarare la convertibilità uno a uno dell’euro con la “neo dracma” e trasformare tutti i depositi presenti in Grecia in “neo dracma”, poi ufficializzare il debito estero in “neo dracme” svalutandolo e tagliandone così una buona fetta».

Questo «fregò» i piccoli risparmiatori italiani con bond argentini.

«Anche l’uscita dall’euro della Grecia e la conseguente svalutazione creerà un’iper inflazione che potrebbe provocare non pochi problemi ai grandi creditori, Francia e Germania. La Grecia si rimpossesserebbe della propria autonomia, ma ad un prezzo alquanto duro e difficile da stimare. Certo le condizioni imposte ora lo sono altrettanto e con un Pil che è a meno 6,5 per cento potrebbe diventare una strada da percorrere. Capire il male minore non è facile. I tedeschi vorrebbero scaricarli, sono gli Stati Uniti, in questo momento, i più interessati a tenere i greci in zona euro».

Perché gli Stati Uniti vogliono salvare la Grecia?

«I loro problemi di debito pubblico e deficit sono più gravi di quelli dell’Europa, ma finché l’attenzione è su di noi e le agenzie di rating sono preoccupate dell’euro, loro possono continuare a “galleggiare”».

Cosa si aspetta dal nuovo governo di coalizione formato dai conservatori di Nea Demokratia, i socialdemocratici del Pasok e il piccolo partito di centrosinistra di Sinistra Democratica?

«Le elezioni del 17 giugno sono state presentate come un referendum pro o contro l’euro, ma è sbagliato. La forza che per i media si contrapponeva a Nea, cioè Syriza, non è radicale, non è comunista o antisistema bensì socialista e socialdemocratica, non a caso a suo tempo votò a favore degli accordi di Maastricht. Propone una revisione del memorandum (gli impegni che Ue, Fmi e Bce hanno chiesto al Governo greco per finanziare il prestito che ha chiesto, ndr) ma non vuole l’uscita dall’euro. Syriza è stata dipinta in quel modo apposta, affinché i greci fossero impauriti dall’incertezza. Quanto accaduto dovrebbe far riflettere anche gli italiani. Ad esempio su chi pagherà la crisi del nostro paese. Tanto per capirci, nella Costituzione greca è previsto che gli armatori abbiano una tassazione privilegiata e non mi pare che nel programma di Nea Demokratia sia prevista la revisione di questo vergognoso privilegio, che significa 15,4 miliardi di utili non tassati nel solo 2011, né che l’Europa l’abbia preteso. Anche in Irlanda, altro paese che ha dovuto sottostare alle rigide richieste europee, la tassazione delle imprese è rimasta vergognosamente al 12,5% per cento. Questo vuol dire che la crisi continuerà a pagarla il fattore lavoro e non il capitale».

Quali sono gli effetti sull’Europa e sull’Italia?

«Prima cosa in Europa esistono squilibri strutturali a prescindere dall’esposizione delle banche tedesche e francesi sul debito greco. La sola Grecia non pesa neppure per il 2 per cento del Pil europeo. Se Spagna e Italia non avessero problemi analoghi, la Grecia potrebbe tranquillamente “saltare”, come nei fatti sta accadendo, senza ripercussioni per l’euro».

Merkel pare possibilista sulla rinegoziazione del debito.

«Quantanche si dilazionassero debiti e tasso di interesse, faccio fatica a capire come la Grecia possa pagare l’immenso debito accumulato, oltre il 160 per cento del Pil, quando nei primi sei mesi di quest’anno la crescita è negativa e la recessione molto più grave di quel che si stimasse. Lo ripeto, la crisi dell’Europa non è solo finanziaria bensì, in primo luogo, economico produttiva».

Quali sono allora i problemi dell’Europa?

«Per limes sto preparando uno studio sulla “geopolitica dell’energia” nel nuovo contesto multipolare, il tema intreccia la politica industriale dei Paesi, ad esempio dell’Italia. Il famoso spread, cioè il profilo di rischio finanziario di un paese, infatti, non dipende solo dal debito pubblico, ma anche dal disavanzo estero accumulato. La Grecia soffre da anni di un cronico deficit della bilancia industriale commerciale dopo un forte processo di deindustrializzazione, ma questo processo l’accomuna a tutta l’Europa. Oggi solo Germania e Olanda producono e vendono, mentre gli altri Stati europei producono sempre meno e comprano. La Germania, che esporta in Europa due terzi dei beni e servizi che produce, ha scaricato gli effetti della crisi internazionale da eccesso di investimento sugli altri paesi acuendone il processo di deindustrializzazione. Nel contempo sta prestando sempre più attenzione ai mercati asiatici. In pratica si sta riposizionando rispetto alla zona euro e alla nuova divisione internazionale del lavoro: non è un caso il rapporto diretto con i russi sul mercato energetico».

Una «ricetta» per risolvere la crisi?

«Il mio compito, in primo luogo, non è dare ricette ma analizzare tutte le diverse interpretazioni e cercare di capire quale la descriverà meglio. Però sono molto preoccupato quando sento politici o economisti fiduciosi sulla fine della crisi. Da un paio di decenni si sono create condizioni per cui la mia generazione e quella subito dopo la mia non avranno condizioni economiche e sociali favorevoli come quelle dei nostri padri e dei nonni. E credo che soprattutto l’Italia viva una grossa crisi culturale, con una bassissima capacità di analisi critica della situazione per fare scelte migliorative, unita ad un estremo provincialismo. Oggi viviamo rapporti di forza internazionali che non sono più quelli usciti dal crollo del Muro di Berlino. Inimmaginabili quando nel ’99 si bombardava Belgrado, compresa l’ambasciata di Pechino: dubito che Washington lo rifarebbe ora. E non mi pare viviamo in un mondo più libero, democratico e con un maggior benessere come si fantasticava vent’anni fa anche a sinistra. Invece l’Italia è imprigionata da vecchi retaggi culturali della guerra fredda, fatica a capire come vi sia la necessità di riequilibrare la propria posizione rispetto a vecchie alleanze. Al contrario i tedeschi lo fanno prendendo anche dei rischi, come quando si sono opposti alle guerre in Iraq e in Libia, alle quali noi abbiamo partecipato». 
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